Riconoscerei alla pittura di Lucia Tomasi due pregi principali, uno di carattere didattico, per così dire, da educatrice quale lei è in effetti, al di fuori dell’ambito artistico, l’altro di carattere più strettamente espressivo.
Comincio col primo, chiarendo cosa intendo. Uno dei problemi sociali e culturali più sottovalutati dei nostri tempi, con il quale, fra l’altro, è direttamente coinvolta anche parte dell’attività che svolgo, e non certo la più trascurabile, è il modo con cui ci si pone, o non ci si pone, davanti al nostro grande patrimonio storico-artistico. Viviamo nella contraddizione, estremizzata in Italia, di una civiltà che da sempre santifica il patrimonio come motivo d’identità nazionale, se non internazionale, dall’altra poco o nulla si preoccupa del modo in cui questo patrimonio può essere percepito collettivamente: è il tesoro, come non a caso si dice, di cui si postula la ricchezza, la presunta potenzialità economica, sempre molto generosa, ma per il quale, in realtà, la stragrande maggioranza degli Italiani si trova sprovvista di mezzi culturali che lo facciano percepire come fattore utile alla crescita individuale e, implicitamente alla collettività. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il tesoro, nel sedicente Paese della cultura, dove invece continua ad abbondare l’ignoranza più crassa, si ammira, si venera, ma rimane sostanzialmente estraneo alle esperienze di vita dei singoli, finendo per essere, tutt’al più, oggetto di un’inesauribile, melensa retorica diventata ormai insopportabile. Per questo, non sentendolo indispensabile, non lo si cura come meriterebbe.
Il primo insegnamento che ci proviene dalla pittura della Tomasi, incentrata sulla rilettura pittorica di molta della grande architettura italiana del passato, è proprio questo: perché il tesoro sia davvero patrimonio, è necessario imparare a viverlo sulla propria pelle, nella propria anima. Va detto che la Tomasi, da architetto appassionato della materia, ha un approccio particolare a ciò che artisticamente tratta, privilegiato, come potrebbe essere anche il mio, perché sostenuto dalla conoscenza. Ma non è il caso di disperare – e questo è un secondo insegnamento – per coloro che non fossero dotati di mezzi culturali altrettanto validi per capire.
Non c’è bisogno, infatti, di conoscere nel dettaglio il Rinascimento, Palladio o Borromini, dicendo di alcuni dei temi più amati dalla Tomasi, per poter cogliere il senso pieno di ciò che ci propone, mirando al coinvolgimento di chi guarda le sue opere nell’esperienza emotiva dell’arte secondo un doppio livello sensoriale e mentale, il primo riguardante ciò che si rappresenta, dunque il capolavoro conclamato, la pietra miliare della storia, il secondo la maniera espressiva che si è scelta per fornire quella certa rappresentazione. Detto diversamente, le opere della Tomasi esemplificano bene quel processo, determinante nell’evoluzione della coscienza culturale della modernità, che l’estetica idealista ha definito attualizzazione, il riconoscimento, cioè, del fatto che qualcosa originatosi nel passato possa avere un valore perfettamente proiettabile nel vissuto del nostro presente, diventando in tal modo contemporanea. Perché il tesoro diventi davvero patrimonio, rendendolo cosa viva che interagisce con i vivi, è necessario attualizzarlo.
La Tomasi, nelle sue opere, attualizza per sé e per noi; quasi come una medium in una seduta spiritica, interroga le pietre chiedendoci di partecipare al rito, facendoci parte attiva nella vivificazione in atto del monumentum che rappresenta. Non avrebbe avuto bisogno, forse, di ricorrere a simili registri per certificare la conoscenza di ciò che ci invita a vedere con nuovi occhi, gli occhi dell’anima, data la sua competenza nel campo. Se lo fa, è per mettere la sua arte a disposizione di chi la guarda, anche dei meno attrezzati, attribuendole un significato che esula dalla semplice soddisfazione personale. È un merito – civile, verrebbe da dire – che le va comunque riconosciuto.
Detto della vocazione didattica, possiamo ora considerare il secondo carattere accennato nelle righe iniziali di questo testo, quello espressivo. In che modo, artisticamente parlando, la Tomasi ci coinvolge nelle sue vivificazioni? In un modo che, in prima istanza, chiamerei “anti-contemplativo”. La Tomasi avrebbe tutte le capacità pittoriche per offrirci delle cartoline da manuale, quelle serene vedute turistiche che dovrebbero istigarci all’adorazione passiva del monumento. Lasciandoci a bocca aperta nell’ammettere la nostra condizione d’imperfezione ed inferiorità rispetto alla sua grandezza. Se c’è qualcosa che la Tomasi deve aborrire, sono proprio i “santini” di quel genere. Non c’è modo migliore di prenderne le distanze che destrutturando alla radice i fondamenti di quel tipo di immagine: se lì la visione è frontale, tenuta a debita, reverenziale, distanza dall’oggetto rappresentato, qui è ribassata e ravvicinata, potendosi concentrare su un dettaglio, uno scorcio, un semplice motivo architettonico; se lì prevale la linearità nella definizione coordinata dell’insieme, con la tecnica che viene assoggettata all’intento, qui è la negazione della totalità secondo convenzione a farla da padrone, concedendo al particolare, anche inatteso, oppure trascurato dai più, messo in debito risalto da una tecnica principalmente cromatica, guizzante ed incisiva nell’avvalersi delle antiche proprietà del tocco, di conquistare una ribalta spesso negata; se lì tutto deve essere regolare, statico, controllato, non dovendo interrompere la contemplazione, qui tutto è mobile ed imprevedibile, volendo suscitare empatia. In sostanza, ci troviamo a che fare con monumenti che vengono sottoposti ad aberrazioni visuali e smaterializzazioni, rispetto alle visioni più canoniche, che cercano, sotto l’apparenza idolatrata, il distillato più profondo di ciò che sono, di ciò che hanno lasciato al mondo come segni di un’umanità non titanica ed inattingibile, ma conciliabile con la nostra, per quanto straordinaria. E una volta individuato questo distillato, lo si propone alla comunicazione con la parte di noi che più è in grado di recepirla, la più viscerale ed emotiva, auspicando il conseguimento di un’interiorizzazione che coniughi, fra noi e ciò con cui ci confrontiamo, spirito con spirito, anima con anima.
Guardiamo, per esempio, il San Carlino che la Tomasi, in omaggio a Borromini, ci fa vedere come se fossimo prostrati e al centro di un vortice che asseconda col risucchio le curvature prodigiose delle membrature, fatte di una glassa cromatica che cola e si aggruma lungo le colonne. Tutto vibra e gira, davanti a noi, per travolgerci, come se presi da improvvisa, spiazzante ebbrezza. Non è più solo il San Carlino, quello che abbiamo di fronte, è lo spirito stesso di Borromini, in trasparenza, a rivelarsi a noi nell’illuminante sfasatezza della percezione alterata, così come nessun testo, nessuna lezione accademica sarebbe stata capace di fare. Ci arrendiamo, al vortice, ma non è una resa, è la condivisione di uno stato emotivo speciale, condotto all’acme delle nostre risorse interiori.
Lo avvertiamo, finalmente, il frisson, il brivido vitalistico che attualizza, facendoci sentire il San Carlino parte di noi, e noi parte sua, senza sentirci più inferiori, entrambi immersi nella grande anima del suo creatore. E il naufragar ci è dolce, dolcissimo, in questo mare.